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Caso Litvinenko, l’ambivalenza di Londra

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Siamo nel bar di un elegante albergo di Londra, a pochi passi dall’ambasciata statunitense e dalla Royal Academy of Arts. Alle pareti, pannelli di legno scolpito e una carta da parati a motivi floreali sui toni del blu e dell’oro. Sul pianoforte a coda, sistemato accanto a una finestra che si affaccia sul parco, c’è un vaso di rose rosse. È il pomeriggio del primo novembre 2006. È ancora presto, la sala è tranquilla. Gli unici clienti, due russi, occupano un tavolo d’angolo. Davanti a loro, tre tazze di tè fumante. Alle 4 entra nella sala un terzo uomo e li raggiunge al tavolo.

È Alexander Litvinenko, un ex agente del KGB. Avendo ottenuto asilo politico a Londra nel 2001, l’uomo ora collabora con il servizio di intelligence britannico MI6. Attratto nel bar dell’hotel Millennium con il pretesto di una proposta d’affari, Litvinenko non sospetta che i suoi interlocutori, due vecchie conoscenze dell’epoca del KGB, abbiano sciolto nel suo una quantità letale di polonio-210, un elemento chimico altamente radioattivo. Berrà tre sorsi di quel tè, e morirà 23 giorni dopo nel letto di un ospedale londinese.

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